Negli anni del
ginnasio e del liceo classico Forteguerri, dal '33 al '38, quel ragazzino
siciliano di Caltanissetta, arrivato a dieci anni a Pistoia, luogo di trasferimento del padre militare, si era
subito ambientato e grazie alle sue doti ed alla sua serietà, Nino era emerso,
insieme a Mario Caterini, come il più bravo della sua classe, con voti eccezionali in
tutte le materie.
Insieme a Rauty, Vaccari e Benesperi, formavano un gruppetto inseparabile di amici, spesso insieme, anche fuori della scuola, non tanto a fare i compiti che ognuno preferiva farli per proprio conto, ma a girellare in bicicletta, a frescheggiare nel boschetto accanto al mulino dei Benesperi a Croce di Gora, a discutere, a parlare dei loro progetti, mentre inesorabili, l'inasprirsi della dittatura e lo spettro della guerra stendevano una coltre ogni giorno più minacciosa sul loro avvenire.
Pieno di entusiasmo e determinazione, Nino volle arruolarsi volontario nell’arma dei Bersaglieri e fu spedito in Libia, dove fu coinvolto nelle alterne vicende della guerra, l’avanzata verso Marsa Matruh ed El Alamein, poi la ritirata versola
Tunisia. Di
costituzione piuttosto debole, fu rimpatriato, gravemente ammalato, poco prima della
disfatta.
Dopo la fine della guerra, non trovando alcun lavoro con la sua laurea in legge, fu assunto come gerente di una libreria aperta in via Cavour; ma vinse poi un concorso per la magistratura, nella quale entrò con l’entusiasmo di sempre e dove poi ha lasciato così tanta memoria di sé.
Insieme a Rauty, Vaccari e Benesperi, formavano un gruppetto inseparabile di amici, spesso insieme, anche fuori della scuola, non tanto a fare i compiti che ognuno preferiva farli per proprio conto, ma a girellare in bicicletta, a frescheggiare nel boschetto accanto al mulino dei Benesperi a Croce di Gora, a discutere, a parlare dei loro progetti, mentre inesorabili, l'inasprirsi della dittatura e lo spettro della guerra stendevano una coltre ogni giorno più minacciosa sul loro avvenire.
Pieno di entusiasmo e determinazione, Nino volle arruolarsi volontario nell’arma dei Bersaglieri e fu spedito in Libia, dove fu coinvolto nelle alterne vicende della guerra, l’avanzata verso Marsa Matruh ed El Alamein, poi la ritirata verso
Dopo la fine della guerra, non trovando alcun lavoro con la sua laurea in legge, fu assunto come gerente di una libreria aperta in via Cavour; ma vinse poi un concorso per la magistratura, nella quale entrò con l’entusiasmo di sempre e dove poi ha lasciato così tanta memoria di sé.
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E ogni emozione partiva sempre da là, da Palermo: «Io
capitai su mia domanda». La scelta degli uomini da affiancare a Falcone («Nino,
devi recuperare Paolo Borsellino... mi suggerì Giovanni»), la campagna contro
il pool scatenata da Il Giornale di Sicilia e da Il Giornale, le tante
"estati dei veleni", i Corvi, gli attentati. Fino al maggio 1992.
Fino al luglio 1992. Fino all' uccisione dei suoi due migliori amici
palermitani.
Nino Caponnetto. Le battaglie di un giudice onesto. – di
Attilio Bolzoni
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A Palermo sbarcò di notte, protetto da uomini armati di
mitraglia. Una corsa nella città deserta, un portone di ferro che si spalanca e
poi la caserma che sarebbe diventata la sua nuova casa. «Sono stati i quattro
anni e quattro mesi più intensi della mia vita», dirà lui quando ormai Giovanni
Falcone e Paolo Borsellino - i suoi figli, i suoi fratelli, i suoi amici - non
c' erano più. Era arrivato il 9 novembre del 1983, cento giorni prima avevano
fatto saltare in aria il consigliere istruttore Rocco Chinnici. E lui, Antonino
Caponnetto, un tranquillo giudice di Firenze, a sessantatré anni, ormai prossimo alla pensione, chiamato da una forza misteriosa, aveva deciso di lasciare la sua famiglia, forse anche la sua vita, e di andare nella Sicilia delle bombe e delle stragi a prendere il posto del giudice Chinnici appena massacrato dalla Mafia.
Stampa Sera del 29/9/1983 |
E sarà lui, Antonino Caponnetto, quello che metterà la sua firma su un milione di pagine e sulla prima pagina di una
sentenza-ordinanza che avrebbe fatto la storia della Sicilia: «Questo è il
processo all' organizzazione mafiosa denominata Cosa Nostra...». Era l' atto di
accusa contro i boss che avevano seminato morte e terrore, era l' inizio della
primavera di Palermo. La sua straordinaria avventura siciliana è diventata un
libro - Io non tacerò dove sono stati raccolti i discorsi, le lezioni, gli scritti del
galantuomo che fece nascere il pool antimafia e si fece scudo per difendere
"i suoi giudici" dagli attacchi più infami che cominciarono proprio
quando il maxi processo a Cosa Nostra era ormai alle porte.
Discreto, silenzioso, all'apparenza fragile ma dentro duro
come l'acciaio, Antonino Caponnetto segnò il confine fra la Palermo e di prima
e la Palermo di dopo, testimone del cambiamento di una città che non sarebbe
mai più tornata quella di un tempo. Dieci anni di memorie, dal 1992 al 2002,
dalla stagione delle bombe fino alla sua morte. Il suo pensiero è stato
riversato in questo volume che è la lunga cronaca di una battaglia dopo la
battaglia, un peregrinare per l' Italia dopo le stragi per portare insegnamenti
e ricordi nelle piazze e nelle scuole: la mafia e l' antimafia, la pace, l'
educazione alla legalità, i diritti dei cittadini e l' informazione.
Si è sempre chiesto Antonino Caponnetto, intuendo quello che
i procuratori avrebbero sospettato tanto tempo dopo: «Perché questa doppia
strage? Non è una riposta semplice da dare. A un certo momento sembra troppo
facile dire: la mafia ne aveva decretato la sentenza a morte. Ne aveva
decretato la morte e l' ha eseguita. Sì, questo è vero. Però con tecniche che
la mafia non ha mai usato, che fanno pensare quanto meno al coinvolgimento di
altri elementi, magari anche esterni». Dalla Sicilia al lavoro minorile, da
certa stampa che «stravolge i fatti» alla P2 («Leggo la dichiarazione con la
quale l' onorevole Silvio Berlusconi sostiene che "essere piduisti non è
un titolo di demerito"...»), dal progetto di «destrutturazione della
Costituzione» ancora alla Palermo che era rimasta nel suo cuore.
Le sue ultime parole sono state naturalmente per Giovanni e
Paolo, per la "dolcissima Francesca" e gli uomini delle loro scorte:
«Sono morti tutti per noi, per gli "ingiusti". Abbiamo un grande
debito verso di loro e dobbiamo pagarlo gioiosamente». E infime, il saluto: «E
ora vi lascio... so che il mio percorso è ormai prossimo a concludersi».
Antonino Caponnetto è morto qualche settimana dopo, il 6
dicembre del 2002. Al suo funerale una grande folla. E nemmeno un'
"autorità", neanche un solo uomo di governo a rendere omaggio a
"nonno Nino", il consigliere istruttore che onorò Falcone e
Borsellino da vivi.
Le assenze dei politici ai funerali di Caponnetto - Marco Travaglio
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Chissà se i politici, quando sono soli con se stessi, ogni
tanto si vergognano. Chissà se i politici siciliani, leggendo ieri le poche
cronache dei funerali di Antonino Caponnetto, già capo dell' ufficio istruzione
di Palermo, si sono vergognati. Se, com' è prevedibile, non l' hanno fatto,
vergogniamoci per loro. E aiutiamoli a vergognarsi.
Parlo naturalmente di quelli che alla basilica della
Santissima Annunziata di Firenze, dove don Luigi Ciotti ha celebrato le
esequie, non c' erano. Cioè quasi tutti, la stragrande maggioranza. Nell'
immensa folla svettava il testone lungo di Giuseppe Ayala, deputato dell'
Ulivo, ma domenica in chiesa non era tanto il politico a pregare, era l' ex
magistrato di una stagione irripetibile. E poi Rita e Salvatore Borsellino. E
poi Antonio Ingroia e Gherardo Colombo simboli degli ultimi pool storici d
Palermo e Milano. E poi Nando Dalla Chiesa, Gianni De Gennaro e altri pochi
reduci che non si arrendono.
Nessun rappresentante del governo, e questo era prevedibile.
Da quando l' onorevole avvocato Enzo Fragalà ha ammonito senza vergognarsi la
sinistra a «non strumentalizzare la morte di Caponnetto», è stato chiaro anche
ai ciechi che il solo fatto che si tornasse a nominare Caponnetto per
annunziarne la morte era di molto seccante per i maggiorenti della cosiddetta
Casa delle libertà. Ma la Sicilia ufficiale? La Palermo ufficiale? Lo sanno il
governatore Cuffaro e il sindaco Cammarata che l' 11 settembre 1983 un già
anziano giudice nato a Caltanissetta ma vissuto quasi sempre a Firenze aveva
lasciato la sua famiglia per andare a Palermo per prendere il posto di Rocco
Chinnici?
Per venire a murarsi vivo in una caserma della Guardia di
finanza, in un momento in cui chi faceva quel mestiere aveva la tendenza a
morire presto e quasi mai nel suo letto? Cari Cammarata e Cuffaro, mai sentito
nominare un certo Caponnetto? Certo, è difficile che il signor sindaco l' abbia
mai incontrato sui campi da tennis. Ancor più difficile che Totò Vasa-vasa se
lo sia ritrovato in ufficio a chiedere una raccomandazione. Ma, aprendo qualche
libro di storia, o domandando un po' in giro agli amici incensurati, i nostri
due statisti avrebbero forse scoperto che fra i siciliani onesti la figura di
Caponnetto voleva dire molto. E forse, nella loro veste di (presunti)
rappresentanti della città e della regione, avrebbero potuto battere un colpo.
Non foss' altro che per rendere omaggio a un ex presidente del Consiglio
comunale di Palermo.
Ma domenica a Firenze non c' era nemmeno Leoluca Orlando,
protagonista di una primavera durata troppo poco, fondatore di quella Rete a
cui generosamente (troppo?) Caponnetto aveva prestato il suo nome e il suo
prestigio ricavandone poi silenziose delusioni. Qualcuno obietterà: ma dove
vive questo bel tomo? Non sa che questa è la Sicilia dei 61 collegi a zero? Non
li ha mai visti in faccia Miccichè, Schifani, La Loggia, Fragalà e gli altri
testimonial della "nuova Sicilia"? Non sa che proprio qui Caponnetto
fu trombato alle elezioni del ' 94 dal camerata Lo Porto? Non ricorda che Il Giornale
di Berlusconi, sotto la direzione di Vittorio Feltri, pubblicò senza
vergognarsi un oltraggioso ritratto di Caponnetto dal titolo "Capo
inetto"?
Che c' entrano questa
politica e questa Sicilia con il candore e il rigore di quel signore
siculo-toscano che sacrificò alla sua terra natale gli ultimi anni della sua
carriera anziché imboscarsi in Cassazione? Tutto vero. Ma il discorso non può
chiudersi qui, non deve chiudersi qui. Perché l' altro giorno, nella basilica
dell' Annunziata, gli accenti e gli impasti siciliani sono risuonati più volte,
durante la preghiera dei fedeli, insieme a quelli dei tanti amici di
"nonno Nino" venuti dal Piemonte, dalla Lombardia, dal Veneto, dal
Trentino Alto Adige, dalla Puglia. C' erano agenti delle scorte palermitani,
commercianti antiracket di Capo d' Orlando, uomini della strada saliti da molte
città e paesi che portavano frammenti di ricordo e non riuscivano mai a finire
di parlare per l' emozione e la commozione.
Uno straccio di istituzione alle spalle l' avrebbero
meritata. Invece nemmeno un telegramma. Eppure Cuffaro era lì a due passi da
Firenze, a Roma, per l' incredibile congresso dell' Udc con rinascita
democristiana incorporata. Lui e l' inseparabile Sergio D' Antoni, l' ex
sindacalista approdato alla corte del Presidente Operaio, altro degno simbolo
della "nuova Sicilia". Entrambi in tutt' altre faccende affaccendati.
Troppo presi a spellarsi le mani per la compagnia dei condannati, ad
abbracciare e baciare il défilé dei Gava, Forlani, Pomicino, Prandini, Santuz,
Bernini e chi più ne ha più ne rubi. Senza dimenticare il senatore a vita
Giulio Andreotti, fresco di condanna per omicidio, e dunque accolto da folle in
delirio e standing ovation. Anche Caponnetto, secondo alcuni generosi e un po'
ingenui amici, meritava il Senato a vita. Il Padreterno gli ha risparmiato
almeno quest' ultimo oltraggio.