Pistoia storia
Natale Rauty, storico di Pistoia
lunedì 30 giugno 2014
martedì 17 giugno 2014
Opere principali
1980 - Olschki - pp 388 - ISBN 882222969X
1985 - Spsp - pp 300
2000 - Sismel - pp 456 - ISBN 8884500095
2003 - Olschki - pp 389 - ISBN 8822252438
2005 - Spsp - pp 346 - ISBN 9788866120261
2007 - Spsp - pp 316 - ISBN 9788866120278
2009 - Spsp - pp 303 - ISBN 9788866120315
lunedì 16 giugno 2014
Giovanni Cherubini - Natale Rauty medievista
GIOVANNI CHERUBINI ( professore
ordinario di Storia medievale, all'Università di Firenze)
NATALE RAUTY
MEDIEVISTA
Dopo le pagine precedenti mi
sembra opportuno offrire un profilo sintetico dello
studioso che ha pensato a questa
nuova iniziativa del Centro Studi. E lo faccio dando alle stampe un mio scritto
su di lui, sino ad ora rimasto inedito, che fu letto il 10 gennaio 2002 nella
grande sala del Palazzo comunale in occasione dell’onorificenza che gli fu
concessa dal Comune.
Ma gli aggiungo a completamento
ed ad ulteriore prova delle doti di Natale Rauty e dell’attaccamento a Pistoia,
della sua familiarità con la storia generale, dei rapporti tra la storia della
città e la storia generale (l’iniziativa odierna si inquadra perfettamente in
questo contesto), che tra il 2005 e il 2009, con precisa cadenza biennale, egli
ha pubblicato tre volumi rispettivamente dedicati a Il regno longobardo e
Pistoia, l’Impero di Carlo Magno e Pistoia, l’Europa e Pistoia nel secolo X dai
Re italici agli Imperatori Sassoni 888-1002.
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Natale Rauty è, nel campo degli studi
storici, un dilettante di
razza. Dilettante di razza, nel senso
che ha, del dilettante, il pregio
della libera scelta dei suoi argomenti
di studio, che non ha avuto maestri
nel senso corrente di insegnanti di
scuola, che non ha fatto della
ricerca anche una professione; ma che
del dilettante non ha neppure
i difetti più correnti, vale a dire un’informazione
insufficiente, la
rimasticatura degli studi degli altri
piuttosto che il desiderio e la capacità
di offrire risultati nuovi, un metodo
agguerrito ed affinato con
gli anni nell’affrontare e nell’utilizzare
le fonti più diverse e nel valutare
gli studi di chi lo ha preceduto. Per
tutto questo Rauty è una
figura molto originale e largamente
apprezzata in particolare dagli
studiosi professionali di storia, che
trovano in lui un’aria di famiglia
ed un atteggiamento severo ed esigente,
nei riguardi di tutti, ma
prima di tutti nei riguardi di se
stesso. Un gruppo di quegli studiosi
ed estimatori, insieme agli studiosi che
ruotano intorno alla Società
Pistoiese di Storia Patria e al
«Bullettino Storico Pistoiese», dei quali
egli è stato per anni presidente,
animatore e collaboratore, gli ha giustamente
dedicato, nel 1997, un volume di studi
in onore.
Fa una certa impressione constatare che
Rauty ha iniziato la sua
carriera di studioso intorno alla metà
degli anni Sessanta (del 1964
è l’edizione di un suo breve articolo
sulla rocca della Sambuca), ad
un’età in cui normalmente, nel mondo
della ricerca, si è raggiunta la
piena maturità attraverso un lungo
precedente curriculum di ricerche
e di pubblicazioni. Evidentemente il
gusto per la conoscenza e la
ricostruzione del passato era vivo in
lui sin dalle origini e aveva atteso
soltanto l’occasione per venire alla
luce. Rauty dovette fra l’altro
anche imparare molto tardi a leggere, a
datare, a controllare le scritture
del Medioevo, divenendone tuttavia in
pochi anni un provetto
conoscitore. In ogni modo la sua
produzione scientifica è ora larghissima
ed è stata resa possibile da una
invidiabile capacità di lavoro
negli anni della pensione — mai, o
semmai da pochissimo tempo,
divenuta effettiva e completa —, ma
anche nel corso degli anni occupati
dall’esercizio di una professione, che
mi risulta essere stata
apprezzata e di successo. La compongono
parecchie decine di saggi,
più o meno ampi, e tre grandi libri,
dedicati rispettivamente alla
storia del palazzo dei vescovi di
Pistoia, alla storia della città nell’alto
Medioevo, al culto che vi ebbero i santi
nel corso del Medioevo.
Rilevante, per i risultati e l’impostazione,
è anche un volume da lui
curato sulla toponomastica del comune
della Sambuca; di tipo diverso,
ma ancora più ammirevole, l’attenta sua
edizione dei due statuti
pistoiesi del XII secolo, corredati di
un’ampia introduzione, di una
traduzione in volgare che li rende
accessibili anche a chi il latino
non sa, di un puntuale commento e di un
prezioso glossario. Una sesta
notevole impresa lo studioso sta ora
realizzando, vale a dire un
Codice diplomatico della famiglia dei
conti Guidi, che hanno avuto
importanza non soltanto nella storia di
Pistoia e del territorio pistoiese,
ma in una intera fetta della Toscana
nord-orientale e nella
confinante Romagna.
Invidiabile è anche la capacità di
Natale Rauty di raccogliere
metodicamente i dati e le notizie
necessarie, di riversarle in nitidi
e comodi schedari, di chiedere al computer
tutto quello che può
dare, di vergare in una chiarissima scrittura
stesure di saggi o abbozzi
in quaderni ed agende, di corredare
infine la pagina stampata con
tabelle, grafici e soprattutto disegni,
di facile realizzazione per un ingegnere,
ma non per noi umanisti. Sembra che per
questo verso da
una professione generalmente lontana
dalla ricerca storica, anche sul
piano mentale oltre che per specifiche
conoscenze, Natale Rauty abbia
saputo trarre qualche ulteriore
opportunità per le sue indagini di
studioso.
L’impulso per darsi definitivamente alla
ricerca storica si presentò
— altro tratto originale dello studioso —
quando Rauty, che
a Pistoia è «l’ingegnere» per
antonomasia, si trovò nella necessità di
procedere al restauro del palazzo del
Balì, già appartenuto nell’età
comunale alla grande famiglia dei
Panciatichi (seguì, una decina di
anni dopo, il palazzo dei Vescovi,
questa volta su incarico della Cassa
di Risparmio di Pistoia e Pescia). I
restauri dovevano permettere un
uso moderno dei due immobili, ma senza
tradimenti della loro iniziale
natura. In entrambi i casi l’ingegnere
ritenne necessario, come si
fa di regola, ma commissionando ad altri
il lavoro, che ne risulta così
molto spesso compilatorio, di
accompagnare il suo intervento con
un proprio studio storico dei due
palazzi, basandolo non su precedenti
autori, ma sul reperimento e la lettura
delle fonti d’archivio. Il
secondo di quegli studi è costituito dal
volume già ricordato (L’antico
palazzo dei vescovi a Pistoia. I, Storia e
restauro, Pistoia 1981), quasi
trecento pagine di grande formato,
divise fra il testo vero e proprio
e due Appendici, nelle quali l’autore ha
raccolto i documenti per la
storia del palazzo e la cronologia dei
vescovi. Il testo, a sua volta ripartito
in tre capitoli, tratta in successione
del potere temporale dei
vescovi pistoiesi nel Medioevo, della
storia del palazzo, del restauro
(problemi generali ed impostazione
metodologica, restauro e recupero
funzionale, consolidamento strutturale).
Rammento ancora con
quale soddisfazione e con quale
competenza Natale Rauty mi condusse
nell’aprile del 1977 — da allora
cominciano sostanzialmente i
miei rapporti con lui — a visitare il
cantiere del palazzo, mostrandomi
ed illustrandomi qualche segreto della
costruzione, narrandomi
le vicende dell’immobile, spiegandomi le
sue scelte di restauratore.
Avvertii che si trattava per lui di una
grande, affascinante ed impegnativa
avventura di restauratore e di storico.
Il quadro delle attività dello studioso
non sarebbe completo
se a fianco dei suoi scritti non venisse
ricordata l’opera di impulso
da lui profusa in varie direzioni a
favore dello studio della storia
di Pistoia. Ho già accennato al
«Bullettino» e alla Società di Storia
Patria. Posso ora ricordare l’indefessa
promozione della collana dei
Regesta Chartarum Pistoriensium, ormai quasi
completata ed alla
quale ha offerto in prima persona il
contributo più ampio. La collana
costituisce un comodo corpus dei
documenti pistoiesi medievali dai
primi tempi sino al XIII secolo, sotto
la forma attentamente meditata
del regesto, non facilmente rilevabile
in iniziative similari per completezza
di contenuto, serietà di esecuzione,
corredi critici. Posso
ricordare anche quella doppia, preziosa
serie di piccole monografie,
preparate per conferenze, rispettivamente
dedicate, la prima, con
copertina gialla, alla storia di Pistoia
nel corso dei secoli o a tematiche
storiche di carattere generale, e la
seconda, con copertina verde,
ai comuni della provincia di Pistoia.
Posso infine segnalare l’opera
personale spesa dal Rauty perché venisse
completata nei suoi quattro
ampi volumi, come in effetti è avvenuto,
quella collettiva Storia di
Pistoia edita dalla
Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia, per la quale
egli aveva già steso il primo volume. Se
nel mio giudizio non pesa
troppo la partigianeria del co-autore,
mi pare che essa non sfiguri
nell’insieme di quelle pubblicate in
Italia da istituti bancari o da amministrazioni
comunali.
Passando ora ad esaminare più in
dettaglio gli scritti di Natale
Rauty, se ne deve osservare, in
primissimo luogo, la manifestazione
di una doppia fedeltà: fedeltà a
Pistoia, fedeltà al Medioevo, e per
il Medioevo, salvo qualche eccezione,
soprattutto ai secoli dell’alto
Medioevo e ai secoli della piena età
comunale, per i quali l’identità
della città appare netta o comunque
riconoscibile rispetto alle altre
città. Meno o punto l’autore è stato
invece interessato dalla Pistoia
confluita o in via di confluire nello
Stato fiorentino, e meno ancora,
direi, per la Pistoia nell’Italia unita
e per la Pistoia dell’età contemporanea.
Per la storia del periodo recente o
recentissimo mi pare
anzi che Rauty, che pur conosce, anche
in questo caso, tantissime
storie e vicende, provi una sorta di
istintiva diffidenza o almeno cautela,
quasi convinto, se non mi inganno, che
le passioni dell’autore
possano in questo caso più facilmente
far velo nel giudizio, nella valutazioni
dei problemi e nella ricostruzione degli
svolgimenti.
Storico del Medioevo, dunque, e storico
di Pistoia e naturalmente
del territorio che faceva capo alla
città, ma storico che ha toccato
una gamma vastissima di temi: questo il
regalo di Natale Rauty alla
sua città, ai cultori e appassionati di
storia della sua città, che sono
molto numerosi, ed infine al mondo più
vasto degli studiosi italiani
e non italiani. In questo senso, come è
stato giustamente osservato,
Rauty continua, con una spiccata nota
personale, le tradizioni di
una illustre cultura storica cittadina,
che annovera i nomi di Quinto
Santoli, dei fratelli Chiappelli, di
Alfredo Chiti, di Guido Zaccagnini,
di Silvio Adrasto Barbi, di Peleo Bacci,
di Sabatino Ferrali.
Ma accenno ora un po’ in dettaglio, per
quanto troppo sommariamente,
ad altri suoi lavori. A più riprese lo
studioso si è impegnato
nell’edizione, traduzione, commento
delle prime ed importanti fonti
statutarie pistoiesi. Dalla lettura di
quelle del XIII secolo egli ha ricavato
anche il testo di una interessante
conferenza sull’immagine della
città negli statuti. Ma si può dire che
uno sguardo particolare ha da
lui ricevuto — ed è facile capirlo, data
la sua professione — l’immagine
fisica della città, sia nei connotati
del Medioevo, quali risultano
dalle fonti scritte e dai resti di quell’età
che è ancora possibile leggere
sul suolo urbano e negli edifici, sia
nei connotati dei secoli successivi.
Rauty ha così aggiunto alle ricordate
ricerche sul palazzo dei vescovi
e sul palazzo Panciatichi altre pagine
sul palazzo degli Anziani, ed
un saggio sull’insieme dei palazzi
pistoiesi, oltre che indagini sempre
molto limpide e puntuali sullo sviluppo
urbanistico di Pistoia e
la topografia urbana. Ma lo studioso non
si è fermato per così dire
alle mura, perché giustamente convinto
che non si può veramente
fare storia urbana di una città
medievale, e soprattutto di una città
dell’area comunale italiana, senza
considerare i caratteri politici,
economici, sociali del suo territorio ed
i rapporti che essa aveva con
quel territorio. In questa direzione egli
si è mosso sia sotto la suggestione
di più tradizionali tendenze
storiografiche — penso ai suoi
molti interventi sulle origini e la vita
dei comuni rurali o alle vicende
di molti di quelli, la Sambuca in testa —,
sia per suggestione di
gusti e curiosità storiche più recenti,
quali l’incastellamento, la viabilità,
le colture e i prezzi dei prodotti
agricoli, la coltivazione della
vite, le sistemazioni fluviali,
fornendo, soprattutto in qualche caso,
contributi di alto valore. Sempre a
questi ultimissimi temi, di vera e
propria storia economica o
istituzionale, accosterei altri interessanti
ed utili interventi dedicati ancora alla
storia dei prezzi, alla metrologia
pistoiese del Medioevo, al controllo
delle misure da parte del
comune nei secoli XII-XV.
Un altro nucleo di forte interesse nelle
ricerche di Rauty è costituito
da una serie di studi, di diversa
ampiezza, impostazione e
natura su tutto ciò che attiene alla
storia della chiesa pistoiese, della
sua articolazione territoriale, della
religiosità. Vi possiamo comprendere
la storia degli edifici di culto, sia
sotto il profilo territoriale, che
istituzionale, che artistico-edilizio.
Vi rientra sia la ricostruzione dei
caratteri, dei diritti e dei compiti del
collegio canonicale della cattedrale
che la descrizione dei possedimenti e
dei poteri dei vescovi
e dei loro rapporti con la società e le
istituzioni urbane. Vi rientra
infine quel volume sul culto dei santi,
di cui Rauty mi pare vada
giustamente fiero, che rappresenta una
sorta di apice delle sue competenze
e, sul piano generale, un prodotto di
alta originalità. Le fonti
che egli vi maneggia con particolare
competenza, primi fra tutti i calendari
liturgici ed i martirologi, non sono di
agevole abbordabilità e
comprensione, e non sono prive di
tranelli. Non sono neppure quelle
a lui più consuete e familiari, come
carte d’archivio, statuti, emergenze
edilizie. Ma si può tuttavia dire che lo
studioso abbia raggiunto,
per questo aspetto, una competenza non
comune e particolarmente
completa, nella quale non manca neppure
la padronanza di quella
cronaca di straordinario interesse che
sono le Storie pistoresi, fatte
oggetto anch’esse di un suo intervento.
Il volume sul culto dei santi
ha richiesto inoltre una indagine
laboriosissima sulla provenienza
dei diversi culti, periodo per periodo,
ed un raccordo tra l’emergere
e il crescere del culto ed il più
generale contesto storico. Ad ogni santo
(si tratta di un centinaio di nomi!)
Rauty ha dedicato una sobria
puntualissima scheda, elaborando poi i
suoi dati in preziose tabelle
statistiche dedicate a più di un aspetto
della tematica trattata nel volume,
come santi commemorati del calendarium
pistoiese del secolo
XIII, qualifica e provenienza dei santi,
onomastici pistoiesi presenti
nelle carte dei secoli VIII-XII.
Non c’è quasi bisogno che io dica,
avendone già accennato, che
le conoscenze acquisite e l’esperienza
fatta con tanti studi, edizioni
di fonti, letture di molte pagine di
autori che si sono occupati della
storia della città, ha condotto Natale
Rauty ad offrire profili complessivi
delle vicende cittadine per periodi
determinati. Al volume
sull’alto Medioevo egli ha infatti
aggiunto un saggio sulla società, le
istituzioni e la politica nel primo
secolo dell’autonomia comunale,
cioè tra l’inizio del XII e l’inizio del
XIII secolo, ed in precedenza un
breve profilo sui secoli XI e XII.
Concludendo queste brevi osservazioni su
uno studioso ben degno
dell’onore che il Comune di Pistoia ha
inteso tributargli con
l’assegnazione dell’Orso civico,
voglio soltanto aggiungere, per quanto
questa osservazione possa apparire
pleonastica dopo quello che
ho detto, che una delle cose che più
attraggono in Natale Rauty è
il fuoco che lo anima nella ricerca. Le
sue settimanali e operose incursioni
nell’Archivio di Stato di Firenze sono
da lui sentite come
graditi momenti di divertimento e come
occasioni per continue scoperte.
Il calore con cui parla dei suoi sempre
nuovi interessi e di studi
iniziati o da iniziare — talvolta con appena
nella voce un velo di malinconia,
ma anche con cristiana serenità per la
vita che passa — sono
insieme il segno di uno studioso di
vaglia, di un uomo rigoroso e operoso
che è piacevole ed istruttivo stare ad
ascoltare a lungo seduti ad
un tavolo, o passeggiando insieme nei
pomeriggi avanzati per le vie
più silenziose della città.
più silenziose della città.
domenica 15 giugno 2014
L'Ingegnere. Ricordo di un maestro e non solo...
L'ingegnere. Ricordo di un maestro e non solo... (link)
Bullettino Storico Pistoiese», CXVI, 2014, (terza serie, XLIX), pp. 17-24
Giampaolo Francesconi
"L’Ingegnere. Ricordo di un maestro e non solo..."
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Le mani incrociate dietro la schiena, il passo lento, la voce cadenzata quasi in un’espressione ritmata e riflessiva, mai troppo gratuita. È questa una delle prime immagini che la memoria mi restituisce dell’Ingegnere. Era, del resto, l’atteggiamento che spesso assumeva, quando al sabato sera dopo la visita alla Società pistoiese di storia patria, lo accompagnavo verso casa. Il tragitto, da Vicolo della Sapienza prima e da Via Filippo Pacini poi, verso Largo Santa Maria era divenuto col tempo e con una confidenza che via via si faceva più larga, pur rimanendo sempre nei ranghi di una inevitabile deferenza, una consuetudine e un momento di proficuo e di intimo dialogo.
L’Ingegnere, non sono mai riuscito a chiamarlo Natale nonostante credo ad un certo punto lo avrebbe preferito, in quelle camminate serali, meglio se accompagnate dalla luce calante o addirittura dal buio fatto, è stato in grado di donarmi attimi difficilmente cancellabili. L’uomo duro, tutto d’un pezzo, rigido ancor prima nei confronti di se stesso che degli altri, in quelle brevi ma reiterate camminate attraverso i vicoli della sua Pistoia, aveva col tempo, mi piace credere anche con una stima e un’amicizia crescente nei miei confronti, lasciato che squarci della sua intimità si aprissero e si facessero sempre più intensi. Ma ancor di più, se è possibile un di più, era riuscito a trasformare la familiarità della conversazione in un accesso persino più diretto verso quella sua acuta e spesso impareggiabile capacità logica, direi quasi geometrica, di inquadrare i problemi, si trattasse di un tema storico, di un aspetto dell’attualità – anche se di politica non parlava mai volentieri tranne che negli ultimi tempi quando si soffermava su un personaggio a lui davvero poco gradito – oppure di un qualche programma da attuare all’interno della Società. Devo dire, col tempo che è trascorso e col senno di poi, che, nonostante qualche inevitabile rigidità figlia di una certa timidezza e di un carattere per nulla facile, l’Ingegnere aveva quasi sempre ragione.
L’Ingegnere, non sono mai riuscito a chiamarlo Natale nonostante credo ad un certo punto lo avrebbe preferito, in quelle camminate serali, meglio se accompagnate dalla luce calante o addirittura dal buio fatto, è stato in grado di donarmi attimi difficilmente cancellabili. L’uomo duro, tutto d’un pezzo, rigido ancor prima nei confronti di se stesso che degli altri, in quelle brevi ma reiterate camminate attraverso i vicoli della sua Pistoia, aveva col tempo, mi piace credere anche con una stima e un’amicizia crescente nei miei confronti, lasciato che squarci della sua intimità si aprissero e si facessero sempre più intensi. Ma ancor di più, se è possibile un di più, era riuscito a trasformare la familiarità della conversazione in un accesso persino più diretto verso quella sua acuta e spesso impareggiabile capacità logica, direi quasi geometrica, di inquadrare i problemi, si trattasse di un tema storico, di un aspetto dell’attualità – anche se di politica non parlava mai volentieri tranne che negli ultimi tempi quando si soffermava su un personaggio a lui davvero poco gradito – oppure di un qualche programma da attuare all’interno della Società. Devo dire, col tempo che è trascorso e col senno di poi, che, nonostante qualche inevitabile rigidità figlia di una certa timidezza e di un carattere per nulla facile, l’Ingegnere aveva quasi sempre ragione.
Camminare al suo fianco è stato per me un piacere e una scuola, per lui credo un modo per lasciarsi andare a qualche intima confidenza con un amico più giovane. Mi rendo conto solo adesso che quel cammino di rientro verso casa è stato anche, se non soprattutto, un cammino a ritroso nella sua memoria. Non sarà facile dimenticare le parole, sovente venate da un malcelato senso di rammarico e da un filo di nostalgia, con cui mi parlava delle estati della sua giovinezza trascorse nella campagna di Pistoia, sulle colline della Valdibure, oppure dei giorni duri, ma anche assai formativi, che lo avevano visto impegnato nella seconda guerra mondiale.
E fu proprio in uno di quei tragitti serali che, quasi in una forma di inconsueta confessione, mi chiese cosa pensassi dell’idea di riordinare e di trascrivere gli appunti che aveva annotato su un taccuino, in presa diretta, durante la sua esperienza di giovane ufficiale. Quella sorta di segreto consiglio, quell’apertura di credito, mi avrebbe trasformato nel primo e forse unico lettore di quelle Memorie di guerra, al di fuori dell’ambito familiare. L’Ingegnere, del resto, mi aveva reso partecipe di un progetto che nei suoi intenti avrebbe dovuto assumere un prioritario valore pedagogico per tutti coloro che non avevano vissuto l’esperienza della guerra, per i suoi nipoti in primo luogo e forse in quel caso anche per me. Mi chiese di leggere quel che via via riordinava e scriveva, che «metteva in bella» come gli piaceva dire, purché io mi impegnassi a non riprodurre nulla in fotocopia delle pagine che di sabato in sabato mi passava.
Quei sabati di una decina di anni fa, o forse qualcosa di più, sono stati un momento di sincera amicizia, forse anche di superamento di quella relazione di discepolato che sin lì aveva caratterizzato il nostro rapporto: io leggevo e restituivo con qualche piccola notazione, lui ringraziava, borbottava e mi passava il capitolo successivo. Quelle memorie spero che potranno ora essere rese pubbliche, non foss’altro perché costituiscono un distillato straordinario della capacità storica dell’Ingegnere, del suo dolcissimo e controverso rapporto con la memoria e della sua stessa cristallina capacità di scrittura. Anche in quel caso, come in gran parte della sua opera storiografica, aveva dato prova di inconfondibile linearità sintattica, di quella pulizia e di quella facilità espressiva che erano il tono più vistoso della sua lucidità e della sua immediatezza di pensiero.
E fu proprio in uno di quei tragitti serali che, quasi in una forma di inconsueta confessione, mi chiese cosa pensassi dell’idea di riordinare e di trascrivere gli appunti che aveva annotato su un taccuino, in presa diretta, durante la sua esperienza di giovane ufficiale. Quella sorta di segreto consiglio, quell’apertura di credito, mi avrebbe trasformato nel primo e forse unico lettore di quelle Memorie di guerra, al di fuori dell’ambito familiare. L’Ingegnere, del resto, mi aveva reso partecipe di un progetto che nei suoi intenti avrebbe dovuto assumere un prioritario valore pedagogico per tutti coloro che non avevano vissuto l’esperienza della guerra, per i suoi nipoti in primo luogo e forse in quel caso anche per me. Mi chiese di leggere quel che via via riordinava e scriveva, che «metteva in bella» come gli piaceva dire, purché io mi impegnassi a non riprodurre nulla in fotocopia delle pagine che di sabato in sabato mi passava.
Quei sabati di una decina di anni fa, o forse qualcosa di più, sono stati un momento di sincera amicizia, forse anche di superamento di quella relazione di discepolato che sin lì aveva caratterizzato il nostro rapporto: io leggevo e restituivo con qualche piccola notazione, lui ringraziava, borbottava e mi passava il capitolo successivo. Quelle memorie spero che potranno ora essere rese pubbliche, non foss’altro perché costituiscono un distillato straordinario della capacità storica dell’Ingegnere, del suo dolcissimo e controverso rapporto con la memoria e della sua stessa cristallina capacità di scrittura. Anche in quel caso, come in gran parte della sua opera storiografica, aveva dato prova di inconfondibile linearità sintattica, di quella pulizia e di quella facilità espressiva che erano il tono più vistoso della sua lucidità e della sua immediatezza di pensiero.
Quella sorta di diario bellico è una conferma ulteriore, se ancora ce ne fosse bisogno, di una sensibilità archivistica che in Rauty doveva essere già ben viva sin dagli anni in cui era stato giovane studente di ingegneria a Pisa e poi soldato nell’Italia settentrionale, in Baviera e sull’Appennino ligure: una sensibilità archivistica che si declinava nella cura per la trascrizione di ogni ricordo, di tutti quei momenti che aveva ritenuto degni di essere fermati e che senza il supporto della registrazione scritta si sarebbero inevitabilmente perduti. Non sarà possibile, in questo senso, dimenticare l’insistenza, anche nella veste di animatore della Società, con cui ribadiva la necessità di scrivere, di scrivere lettere, di mantenere ferme nella scrittura tutte quelle relazioni cui si dava una qualche importanza: si trattasse della professione o si trattasse di amicizia e di affetti.
E ho ben presente davanti agli occhi la fanciullesca soddisfazione con cui più volte mi aveva mostrato gli scaffali ben ordinati con i faldoni del suo archivio personale, di storico e di ingegnere, conservati nel piano rialzato del suo appartamento di Largo Santa Maria: «ecco, vedi, qui dentro c’è tutto quello che ho fatto, c’è tutta la mia vita». Se oggi posso provare un rammarico, un rammarico anche dolce ma irrimediabile, è proprio quello di avergli scritto meno di quanto avrei voluto e forse di quanto egli avrebbe desiderato.
E ho ben presente davanti agli occhi la fanciullesca soddisfazione con cui più volte mi aveva mostrato gli scaffali ben ordinati con i faldoni del suo archivio personale, di storico e di ingegnere, conservati nel piano rialzato del suo appartamento di Largo Santa Maria: «ecco, vedi, qui dentro c’è tutto quello che ho fatto, c’è tutta la mia vita». Se oggi posso provare un rammarico, un rammarico anche dolce ma irrimediabile, è proprio quello di avergli scritto meno di quanto avrei voluto e forse di quanto egli avrebbe desiderato.
Il tempo che scorre, il tempo che scorre e che inevitabilmente si perde e ci sfugge credo sia stato un suo cruccio e un suo costante motivo di interrogazione. Ricordo ancora quanto mi disse una volta al ritorno da uno dei suoi abituali soggiorni marini a San Vincenzo, con la signora Rita: le passeggiate sulla spiaggia, al mattino presto o all’imbrunire, erano per lui oltre che un piacere ovvio e naturale anche un modo per perdersi nell’atemporalità, in un paesaggio in cui i segni del tempo erano deboli o del tutto assenti. E continuava: quel mare, quel panorama inalterato con l’Elba all’orizzonte da quanto tempo era così, di quanto ci aveva preceduto e per quanto ancora avrebbe mantenuto quei contorni. Non erano le domande di un filosofo, erano anzi le domande di un uomo che aveva forse esorcizzato quelle riflessioni dedicando gran parte della sua vita proprio alla ricerca dei segni che il tempo aveva lasciato, che si trattasse di un’architettura, di un resto archeologico o di una scrittura su pergamena.
Mi piace pensare che quel suo frugare rigoroso, quel suo frugare da ingegnere con una solida formazione classica, fra le carte medievali nascesse proprio da quella mai del tutto risolta interrogazione. È come se nell’Ingegnere il tempo escatologico, il tempo dell’attesa e del compimento cristiano fosse sempre stato percepito come separato dal tempo storico, dal tempo degli uomini e delle loro azioni. Una scissione che, credo, ben si colga nei suoi interessi storiografici, pur vari, da battitore libero, ma sempre calibrati e orientati da domande molto concrete e molto vicine ad una sensibilità aperta e incline alla curiosità. E che, di più, quasi sempre nei suoi percorsi di studio aveva tenuto ben presenti, cogliendo le sollecitazioni che potevano provenire dal restauro di un palazzo, dal ritrovamento di un documento o da una questione storiografica da lui ritenuta stimolante, penso ad esempio alla cosiddetta «questione longobarda» che tanto lo aveva interessato e affascinato fino agli ultimi anni della sua vita. Una certa melanconia di fondo che ne solcava il carattere era, insomma, sempre stata tenuta bene a bada da una mente rigorosa e da un empirismo equilibrato che ne aveva guidato scelte professionali e di studio.
Mi piace pensare che quel suo frugare rigoroso, quel suo frugare da ingegnere con una solida formazione classica, fra le carte medievali nascesse proprio da quella mai del tutto risolta interrogazione. È come se nell’Ingegnere il tempo escatologico, il tempo dell’attesa e del compimento cristiano fosse sempre stato percepito come separato dal tempo storico, dal tempo degli uomini e delle loro azioni. Una scissione che, credo, ben si colga nei suoi interessi storiografici, pur vari, da battitore libero, ma sempre calibrati e orientati da domande molto concrete e molto vicine ad una sensibilità aperta e incline alla curiosità. E che, di più, quasi sempre nei suoi percorsi di studio aveva tenuto ben presenti, cogliendo le sollecitazioni che potevano provenire dal restauro di un palazzo, dal ritrovamento di un documento o da una questione storiografica da lui ritenuta stimolante, penso ad esempio alla cosiddetta «questione longobarda» che tanto lo aveva interessato e affascinato fino agli ultimi anni della sua vita. Una certa melanconia di fondo che ne solcava il carattere era, insomma, sempre stata tenuta bene a bada da una mente rigorosa e da un empirismo equilibrato che ne aveva guidato scelte professionali e di studio.
Scrivere dell’Ingegnere mi è difficile. Lo sforzo è duplice o forse anche triplice: per l’affollarsi dei ricordi, per l’affetto da dominare e perché sono quasi certo che avrebbe avuto qualcosa da “bofonchiare”. Magari anche con una qualche soddisfazione che spesso riusciva a far trapelare, ma certo con quella rigorosa tensione che rendeva davvero difficile accontentarlo. E che in primo luogo chiedeva e pretendeva da se stesso. Ed era difficile perché era un uomo di straordinario talento e di acuta intelligenza, ma soprattutto era un uomo rigoroso e un infaticabile lavoratore.
Ricordo con chiarezza due cose che mi ripeteva spesso: che aveva imparato a lavorare con assiduità ed entusiasmo proprio al ritorno dalla guerra, perché in fondo quel vuoto e quel furto di gioventù aveva insegnato a quella generazione la religione del lavoro e poi che solo il lavoro quotidiano, continuo e appassionato può dare i frutti migliori. Nessuna intelligenza, mi diceva, può dare grandi frutti senza la costanza e la perseveranza: questa era una sua convinzione, mi viene da dire, assoluta. Per questa sua gratuità nel fare e nel dare, l’Ingegnere è stato una delle figure più significative della mia vita adulta. Quello che, con un’enfasi che probabilmente non avrebbe gradito, potrei definire un maestro.
Ricordo con chiarezza due cose che mi ripeteva spesso: che aveva imparato a lavorare con assiduità ed entusiasmo proprio al ritorno dalla guerra, perché in fondo quel vuoto e quel furto di gioventù aveva insegnato a quella generazione la religione del lavoro e poi che solo il lavoro quotidiano, continuo e appassionato può dare i frutti migliori. Nessuna intelligenza, mi diceva, può dare grandi frutti senza la costanza e la perseveranza: questa era una sua convinzione, mi viene da dire, assoluta. Per questa sua gratuità nel fare e nel dare, l’Ingegnere è stato una delle figure più significative della mia vita adulta. Quello che, con un’enfasi che probabilmente non avrebbe gradito, potrei definire un maestro.
Un maestro naturale, con la spontaneità e l’affabilità di chi sa insegnare e divulgare senza bisogno di avere una cattedra. E sono state queste le prime doti che ho potuto conoscere ed apprezzare di Natale Rauty, sin da quando Giovanni Cherubini, una volta affidatomi il tema di laurea – la formazione e la gestione del districtus cittadino a Pistoia – mi indirizzò verso quel nome che conoscevo solo per aver letto qualcosa, allora non molto a dire il vero, di storia medievale pistoiese. Sin dal primo contatto avvenuto in una mattina di fine settembre o d’inizio ottobre del ’92, io di qua e lui di là dal grande tavolo di castagno della stanza d’angolo all’ultimo piano di Palazzo Balì, compresi che mi trovavo di fronte a qualcosa di molto diverso da quel che avevo sin lì conosciuto. Alle mie aperture storiografiche e di scuola tipiche dello studente imbevuto di libri e di questioni generali, lui ribatteva con una puntualità e con una profondità di affondo su questioni precise che mi vedevano quasi del tutto impreparato. Era la pratica della ricerca quella che ci separava. Fu così che ebbe inizio una frequentazione sempre più regolare, prima negli angusti ed umidi locali di vicolo della Sapienza, allora sede della Società pistoiese di storia patria, quindi come diceva lui «allo studio», e poi nella sua casa pistoiese o nel buen retiro estivo di Montevestito. Era l’inizio e poi la prosecuzione di un rapporto bellissimo, anche duro talvolta, ma talmente prezioso da aprirmi alla strada del metodo, della pratica d’archivio e del ragionamento empirico.
L’Ingegnere sembrava davvero sapere tutto e sapeva davvero molto, il tutto amplificato da un’arguzia non comune e da una conoscenza straordinaria di Pistoia, del suo territorio e dei suoi archivi, sebbene in lui non mancassero certe inevitabili rigidità tipiche dello studioso autodidatta. Sembra persino banale dire che l’Ingegnere mi ha insegnato molto.
L’Ingegnere sembrava davvero sapere tutto e sapeva davvero molto, il tutto amplificato da un’arguzia non comune e da una conoscenza straordinaria di Pistoia, del suo territorio e dei suoi archivi, sebbene in lui non mancassero certe inevitabili rigidità tipiche dello studioso autodidatta. Sembra persino banale dire che l’Ingegnere mi ha insegnato molto.
Ricordo, con la nitidezza con la quale si ricordano le cose che fanno la differenza, una mattina della fine di agosto del 1995. La stesura della tesi di laurea era ormai giunta alle battute finali e per rivedere alcuni dettagli dell’ultimo capitolo l’Ingegnere mi raccomandò, con una certa solerzia, di raggiungerlo a Montevestito. Era domenica, pioveva e nel tragitto dalla macchina alla porta della bellissima casa della famiglia Marchetti, oltre alle asperità dell’improvviso mutamento climatico, ricordo di aver avvertito un misto di emozione e di curiosità per quell’invito festivo. Suonai e aprì con la consueta grazia e cortesia la signora Rita. L’Ingegnere, seduto al tavolo da lavoro sistemato in un angolo defilato della zona pranzo, mi sollecitò a sedermi, con bonaria risolutezza. La lampada gialla della scrivania rifletteva sui vetri della finestra, rigati dalle gocce insistenti dell’acqua, e in un attimo illuminò il dattiloscritto con il mio capitolo, vergato da una fitta trama di correzioni. Anche il modo in cui l’Ingegnere correggeva un testo diceva molto del suo stile inconfondibile, che era un misto di eleganza, di perseveranza e di chiarezza cristallina e pretesa. Mi guardò, mi fece alcuni rilievi e aggiunse: «Si vede che sei arrivato in fondo al tuo lavoro, finalmente un testo centrato nei contenuti e nella scrittura». Rimase poi ad osservarmi, con un’aria quasi divertita, di fronte al mio sguardo perplesso su quelle pagine piene di annotazioni. Ecco, nel suo modo di concepire il lavoro e nello specifico il lavoro di ricerca e di scrittura, quelle pagine erano finalmente buone. Quella mattina di fine agosto mi aprì, e credo per sempre, all’affettuosa disciplina di Natale Rauty. Alla disciplina di un uomo che era nato per essere maestro, che era nato per insegnare e per insegnare ai più giovani. Alla disciplina di un uomo che credeva nella conoscenza e nella condivisione della conoscenza, nel potere risolutivo, anche in termini di promozione sociale, del sapere e che non riusciva a concedere nessun tipo di spazio all’improvvisazione, alla cialtroneria, a tutto quel che nasceva senza avere un progetto preciso: si trattasse di un libro – l’indice doveva essere chiaro sin dall’inizio, di una conferenza o di un convegno.
Quando penso all’Ingegnere, così in questi ultimi mesi e forse anche negli ultimi anni quando la sua assenza ha cominciato a farsi sentire sempre di più, penso alla figura di un giusto, alla figura di un uomo che credo di poter dire non ha mai preteso dagli altri più di quanto pretendesse da se stesso. E da se stesso ha sempre preteso moltissimo, fino a soffrirne nell’ultimo periodo della sua vita. Questo tratto del suo carattere penso possa dire molto di quel che Rauty è stato, di quel che è stato anche quando pretendeva che il «Bullettino» avesse una certa forma – non posso non ricordare i giorni difficili per la rivista in cui mi chiese, con l’allora Presidente Giuliano Pinto, di assumerne la direzione ma anche la totale libertà di gestione che più avanti mi ha sempre lasciato fino a non convincerlo del tutto in qualche caso – oppure quando si persuadeva che un problema storico dovesse avere una certa soluzione e non un’altra, troppo semplice o troppo comoda.
E non posso, certo, dimenticare nemmeno le parole che spesso ha saputo trovare di fronte a qualche spiacevole situazione, anche accademica, che mi aveva visto coinvolto o quelle, invece, di soddisfazione quando avevo avuto modo di riferirgli di qualche mio piccolo successo che lui credo avesse sempre auspicato. Così come non mi sarà facile dimenticare quelle espressioni, fra il divertito e l’indispettito, con cui mi faceva notare, soprattutto negli ultimi tempi, che certo avevo preso talmente tanta confidenza con la ricerca che ero arrivato ad occuparmi di temi anche fumosi come i linguaggi politici. In fondo, era anche un modo per riconoscere qualcosa alla sua pazienza.
E non posso, certo, dimenticare nemmeno le parole che spesso ha saputo trovare di fronte a qualche spiacevole situazione, anche accademica, che mi aveva visto coinvolto o quelle, invece, di soddisfazione quando avevo avuto modo di riferirgli di qualche mio piccolo successo che lui credo avesse sempre auspicato. Così come non mi sarà facile dimenticare quelle espressioni, fra il divertito e l’indispettito, con cui mi faceva notare, soprattutto negli ultimi tempi, che certo avevo preso talmente tanta confidenza con la ricerca che ero arrivato ad occuparmi di temi anche fumosi come i linguaggi politici. In fondo, era anche un modo per riconoscere qualcosa alla sua pazienza.
Sarà ben difficile, credo impossibile, poter dimenticare quel che ho ricevuto dall’affetto, dall’amicizia e anche dalla stima di Natale Rauty. Per tutto quello che ho imparato, anche in termini di rigore e di appassionato impegno civile, per quel poco che il pudore mi ha qui consentito di ricordare, ma anche per tutto quello che è destinato a rimanere nell’intimo del non detto e che lui ben sapeva, l’Ingegnere, e per una volta voglio chiamarlo Natale, è stato per me un maestro. Un maestro e non solo...
Il Comune di Pistoia, anno III, n. 21, Gennaio 2002 - Orso civico a Natale Rauty
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